Il nostro ethos si è formato, per secoli, in relazione con una visione del mondo che lo sviluppo della scienza, a partire dagli albori dell’età moderna, ha progressivamente distrutto. Avevamo un universo ordinato, di cui occupavamo il centro; ed avevamo un Dio a nostra immagine e somiglianza. Sappiamo oggi che quello su cui siamo è un pulviscolo minimo, perso nell’infinità dell’universo. Ma questa non è la cosa più inquietante. Sappiamo anche che le cose non sono cose, che la sostanza è un inganno e che ogni scena che vediamo ha una sua verità più profonda, nella quale scompaiono i contorni delle cose: e delle persone.
Quello che sappiamo del mondo entra in conflitto inconciliabile con il modo in cui per secoli siamo stati abituati a pensare noi stessi. Il risultato è che non sappiamo più abitare il mondo. Di qui l’importanza, anche per l’Occidente, del Dharma del Buddha. Perché il punto di arrivo della scienza - un universo che nulla concede al nostro bisogno di rassicurazione - è il punto di partenza del Dharma. Tutto è privo di sostanza, tutto è privo di identità, tutto è transeunte - la stessa natura di Buddha, dirà Dogen, è impermanente. Che fare? Come muoversi nella vacuità? Come abitare un mondo inabitabile? Entrando nel nostro stesso non essere sostanza - nel non-io che siamo. Toccare il vuoto che noi stessi siamo.
Non c’è nulla che terrorizzi di più il soggetto occidentale, viziato da secoli di cristianesimo. Ma non potrà fare a meno, prima o poi, di entrare da quella porta.